In un confuso oggi, la “ricerca” è l’antidoto giusto all’attuale dispersione di energie. Centrarla sul lavoro, permette di non disperdere i fondamentali riferimenti politici e sociali in un paradigma di pensiero economicista e consente un approccio al nuovo che, come (e forse più) del precedente, è fatto di gente che lavora e di gente che specula, di disuguaglianza e di precarietà di vita, ma anche di reciprocità, cooperazione e sperimentazione sociale come reazione a quello che non va.

Tornare in fabbrica, in una fabbrica recuperata, per fare ricerca è un mix tra Micheal J. Fox di “ritorno al futuro” e Marcello Mastroianni ne “I compagni” di Monicelli. Con l’animo del militante e gli occhiali del ricercatore si calpestano i luoghi, si vivono gli spazi del lavoro e della vita di cittadini che, soprattutto in provincia (con buona pace di chi gode solo delle contraddizioni delle metropoli), si auto-organizzano e ri-attivano le macchine e il senso della loro esistenza.

Senza manager e senza guardare gli indici di borsa, la prima cosa che si scopre è che la produzione (udite, udite!) in direzione ostinata e contraria si fa ancora, anche qui e, cosa ancora più sbalorditiva, con i mezzi di produzione, la gestione e le contabilità in mano ai lavoratori.

Per lavoratori dobbiamo intendere operai e tecnici che si conoscono da una vita, che vivono lo stesso territorio, si incrociano, parlano, scherzano, si incazzano quotidianamente, nella stessa comunità. Spesso hanno fatto sindacato e politica insieme e adesso rifiutano il meccanismo capestro della cassa integrazione, stringono la cinghia insieme ed elaborano strategie produttive e di cooperazione, si attaccano con le unghie all’unica cosa che sanno fare: i lavoratori industriali. Una condizione, questa, che è oggettivamente lontana dal mantra della flessibilità neoliberale. Contemporaneamente, rispolverano e lucidano l’idea di mutualismo e la sbattono in faccia a chi entra in fabbrica; senza epica, senza conflitto, senza pathos. Imprecano perché in Italia sono pochi a conoscere la legge Marcora (legge 49 del 1985 che resta uno dei migliori compromessi tra DC e PCI) e perché le centrali cooperative e CFI (gli investitori istituzionali che gestiscono rispettivamente il fondo nazionale per le cooperative “fenici” e i fondi mutualistici per chi recupera un’impresa in stato di fallimento o fuga del capitale privato) funzionano, ma pretendono garanzie di compartecipazione agli investimenti iniziali ancora troppo grandi per dei lavoratori (soprattutto al sud[1]) che hanno appena perso il proprio posto e, inoltre, promuovono con troppa facilità la trasformazione da operaio a dirigente d’azienda.

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