A partire dalla crisi dei subprime, iniziata negli Stati Uniti nel 2006 e approdata sui nostri lidi due anni più tardi, l’impresa manufatturiera italiana – tranne rare eccezioni – ha attraversato una decade problematica. Da una parte la perdita di produttività/fatturato e il difficile reinsediamento lungo le principali rotte di un mercato ormai proteso verso i paesi emergenti; dall’altra il calo delle esportazioni che ha aperto la strada alla crisi dei distretti produttivi che avevano costituito l’ossatura della manifattura italiana.

Se focalizziamo l’attenzione sulla situazione emiliana e in particolare sul distretto modenese, già nel 2009 si osservavano rispetto all’anno precedente le seguenti tendenze: -21,1% in produzione, -19,6% sul fatturato, -14,4% di ordini, -25,2% di export e un decisivo calo di 2,7 miliardi di euro sulle vendite all’estero. Con l’eccezione del biomedicale che generava maggiori profitti, il settore più colpito dalla recessione era la ceramica, settore di punta fino all’anno precedente (Commissione consigliare speciale per il monitoraggio della crisi economica, Comune di Modena, giugno 2010).

Quello stesso report segnalava una diminuzione del 10% nelle imprese attive del manifatturiero, il triplicare dei fallimenti, un +38% circa dei pignoramenti immobiliari e un +23% di quelli mobiliari, con un drastico calo per produzione di marchi (-9%) e brevetti (-4%).

«Qualcosa scricchiola pesantemente», titolava quel report in una delle sue pagine. Disamina realista, perché il quadro recessivo influenzava anche le sofferenze finanziarie delle imprese alla ricerca di nuove linee di credito. Per non parlare del problema occupazionale, con il blocco sfiorato delle assunzioni, i tassi di disoccupazione in rialzo e la conseguente esplosione della Cassa Integrazione.

Una strada utilizzata per uscire dalla crisi si è rivelata la trasformazione da impresa in cooperativa, attraverso lo strumento della legge Marcora n. 49/1985, tuttora in vigore. Tale provvedimento mira a garantire il credito necessario per far ripartire la produzione e allo stesso tempo salvaguardare i livelli occupazionali. Di seguito descriveremo due casi emiliani di imprese che attraverso il Workers BuyOut, il riacquisto della società da parte degli stessi lavoratori, sono ripartite nella produzione con discreti risultati.

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