Report iniziativa “Imprese recuperate. La rivoluzione silenziosa”

Sabato 26 maggio 2018  all’Unione Culturale di Torino

             Loredana Larossa faceva l’impiegata amministrativa, ora è la presidente della cooperativa Alfa Engineering di Modena. Producono e vendono giunti isolanti monolitici per gasdotti, oleodotti e acquedotti. Il loro mercato è soprattutto fuori dall’Italia, l’ultimo anno è stato un po’ più difficile dei precedenti a causa delle tensioni geopolitiche internazionali.

Fabrizio Galliano è socio della cooperativa che gestisce dal 2015 la Cartiera Pirinoli di Roccavione in provincia di Cuneo. Tutta la biografia lavorativa di Fabrizio è ambientata in quella cartiera, prima da dipendente e rsu di fabbrica, oggi da proprietario.

La Alfa Engineering e la Cartiera Pirinoli da qualche settimana sono entrate a far parte della Rete italiana imprese recuperate (impreserecuperate.it). Si tratta di un progetto del neonato Collettivo di ricerca sociale che ha l’obiettivo di mettere in connessione tutte le esperienze di salvataggio di imprese da parte dei lavoratori che si organizzano in forma cooperativa. Attualmente nella rete sono una decina ma l’obiettivo è coinvolgere tutte le circa ottanta realtà italiane.

Loredana e Fabrizio si sono conosciuti per la prima volta sabato 26 maggio 2018 presso l’Unione Culturale di Torino alla prima iniziativa pubblica della Rete italiana imprese recuperate. Hanno condiviso le loro esperienze e confrontato i loro percorsi. L’Alfa Engineering e la Cartiera Pirinoli hanno una storia molto simile. Dopo una crisi irreversibile e il fallimento, un gruppo di lavoratori decide di rilevare l’azienda e continuare in forma cooperativa la produzione. Investono, in entrambi i casi, il residuo di cassa integrazione e mobilità per costituire il capitale sociale. Accedono ai fondi previsti dalla legge Marcora (la legge del recupero d’impresa attiva dal 1985) gestisti da CFI (Coooperazione Finanza Impresa) e si avvalgono del supporto organizzativo e finanziario (con fondo Coopfond) di Legacoop.

A Modena nel dicembre 2011 sono ripartiti in 10 dei 21 dipendenti rimasti, hanno affittato dapprima il ramo d’azienda e successivamente ne sono diventati proprietari. Oggi lavorano nella produzione dei giunti isolanti 15 persone di cui 9 sono soci. Uguale percorso a Cuneo, ma con numeri più grandi. Alla cartiera hanno ricominciato in 70 soci (su circa 150 pre crisi), attualmente a produrre il cartoncino patinato sono una novantina circa a seguito delle assunzioni effettuate dopo la ripresa.

Una storia un po’ diversa è quella della Mancoop di Santi Cosma e Damiano in provincia di Latina, un’impresa anch’essa aderente alla rete e rappresentata nell’incontro di Torino da Romolo Calcagno, delegato dai lavoratori laziali nonché componente del collettivo di ricerca sociale. In questa vicenda emerge l’influenza di un diverso contesto, in un territorio con una più fragile filiera istituzionale e sociale il recupero ha seguito un diverso itinerario. La chiusura nel 2011 dopo vari passaggi proprietari attraverso fondi multinazionali di quella che era conosciuta come la Manuli, ha portato i lavoratori a occupare lo stabilimento per evitare il rischio di vendita dei macchinari e l’abbandono degli spazi. In questo caso nessuno dei lavoratori se l’è sentita di mettere soldi per costituire il capitale sociale, così con una quota simbolica di 100 euro hanno comunque costituito la cooperativa. A seguito dell’assenza del contributo economico dei soci non si è percorsa la strada di accompagnamento da parte di una centrale cooperativa e non si è attivata la legge Marcora. I lavoratori della Mancoop si sono ingegnati, hanno lavorato gratis per alcuni mesi, hanno venduto i grandi macchinari e messo sul mercato le loro competenze su quelle macchine. Così sono riusciti a fare un po’ di cassa necessaria per la ripartenza. Poi hanno deciso di destinare metà dello stabilimento a incubatore di altre attività industriali. Nel resto dello spazio dal 2013 hanno ripreso a produrre gli adesivi per cui erano noti in precedenza. Un percorso unico, il loro, senza aiuti istituzionali o il supporto finanziario di banche e fondi d’investimento. Oggi, negli stabilimenti della Mancoop, grazie anche al progetto di incubatore, c’è un indotto di circa 300 lavoratori e lavoratrici.

Ciò che insegnano le esperienze
Dopo il fallimento c’è sempre un periodo di attesa in cui si accende la speranza dell’arrivo di nuovi investitori pronti a rilevare l’azienda. Quando questo non succede, oltre a un senso di disorientamento, in alcuni casi si mette sul tavolo l’ipotesi della cooperativa e dell’acquisto da parte dei lavoratori rimasti. L’ostacolo più grande di questa fase è superare lo scetticismo e i legittimi timori legati al dover avventurarsi in un percorso dagli esiti incerti. Inoltre l’investimento iniziale necessario per la costituzione del capitale contribuisce ad alimentare la paura di non farcela.

Le storie incontrate raccontano di una forte coesione dei lavoratori che decidono di rimanere e provarci, di un ruolo importante delle comunità dei territori di appartenenza e della necessità del verificarsi di alcune condizioni. La principale è legata alla presenza o meno di tutte le competenze necessarie al riorganizzare la produzione. Nel caso dell’Alfa Engineering, per esempio, la perdita del responsabile commerciale e dell’ingegnere hanno complicato non poco la fase iniziale. L’altra condizione fondamentale riguarda, anche alla luce della redazione del piano di fattibilità, la verifica delle condizioni di mercato della propria produzione. Il fallimento e la temporanea chiusura comporta anche che altri attori sul mercato si avvantaggino della diminuzione dell’offerta. Tant’è che l’attività più complessa, così come emerge dal resoconto delle imprese della rete, è quella di ricostruire una reputazione aziendale compromessa dal fallimento, rimettere in sesto una rete commerciale riallacciando i rapporti con i clienti e i fornitori che, in alcuni casi, attendono ancora il pagamento di vecchie fatture. Anche per le ragioni elencate è importante che il tempo trascorso tra il fallimento e la ripartenza sia il minore possibile, sia per la possibilità di avere maggiori risorse (per esempio maggiore mobilità e cassa dei lavoratori da poter investire), sia per non perdere competenze e quote di mercato.

Il progetto della Rete italiana di imprese recuperate, attraverso la messe in rete e la conoscenza delle esperienze, punta a ridurre questo lasso temporale e soprattutto offrire alle attuali crisi aziendali una possibilità in più. In tal senso la presenza all’incontro del 26 maggio di una rappresentanza dei lavoratori ex-Rational di Massa è stata molto importante. La Rational ha chiuso lo scorso marzo, produceva lavatrici industriali e asciugatrici,. Da quel momento un gruppo di lavoratori appartenenti anche ad altre crisi occupazionali della zona (es. Ex Eaton) hanno iniziato a vagliare l’ipotesi della cooperativa per riprendere la produzione. Nasce un presidio permanente e la prima idea di rilancio è di una lavanderia sociale per l’abbigliamento dei lavoratori della zona. Nel progetto è coinvolta anche Legacoop e altri soggetti istituzionali locali. Non si riesce però a recuperare i fondi necessari e l’ipotesi svanisce. Per ammissione dei lavoratori anche la conoscenza di alcune delle esperienze oggi nella rete gli ha portati a non mollare, e al momento stanno immaginando un progetto di rilancio basato sulla produzione di lamiera. Anche con una maggiore attenzione a dotarsi di migliori competenze tecniche.

Rinsaldare la rete e diffondere le buone pratiche
L’incontro del 26 maggio conferma la necessità di proseguire il lavoro di contatto tra le imprese che hanno intrapreso un percorso di recupero e la loro messa in rete. Così come è urgente l’affinamento di strumenti utili alle crisi occupazionali attuali e future per aiutare, laddove vi sono le condizioni, la costituzione di cooperative di lavoratori. La collaborazione e il ruolo delle centrali cooperative risulta fondamentale per ampliare il raggio di azione e mettere a valore importanti competenze. L’esperienza delle centrali cooperative ha avuto una funzione di “sblocco” di molte vicende, così come non ha investito in operazioni che non credeva in grado di reggere le condizioni del mercato.

Rimane il nodo delle culture sindacali, nella maggior parte dei casi, e al di là delle singole figure, ostili a operazioni di recupero per come sono state delineate. Sarà interessante e utile aprire un confronto su questo. In ultimo, anche attraverso il monitoraggio delle esperienze in corso, sarà importante vedere come si struttura l’organizzazione cooperativa, dove risiedono i nodi più problematici e come si relaziona il socio già dipendente dentro una nuova configurazione e l’esigenza di un management all’altezza delle sfide.

Il Collettivo di Ricerca Sociale